Pubblico molto volentieri il racconto di viaggio di Fabrizio, affezionato lettore di questo blog (e di molti altri) e attento viaggiatore fai-da-te. Si parla di Haiphong, tappa insolita di un tour del Vietnam. Grazie a chi legge e a chi scrive!
Hai
Phong è la terza città del Vietnam ed il primo porto commerciale della Nazione.
E’ una città moderna, tutta in fermento e proiettata verso un prospero
avvenire, essendo il punto di approdo e di partenza delle merci destinate alla
parte settentrionale del paese. E’ dotata di un moderno aeroporto, e quindi ha
tutte le carte in regola per ritagliarsi un posto di primo piano nel contesto
nazionale. Stranamente è tagliata fuori dalle rotte turistiche convenzionali,
ed ha la nomea di “città della mafia”, che la penalizza non poco. È risaputo
che il turismo occupa oggi un posto importantissimo nell’economia nazionale.
Secondo
il mio programma di viaggio da nord a sud, Hai Phong era un ottimale scalo per
il centro del Paese. Siamo arrivati in questa città provenendo dalla Baia di
Halong il primo giorno dell’anno, a bordo di un robustissimo bus di linea
condotto da un pilota che ha messo a dura prova ed esaltato le parti meccaniche
del mezzo con una guida, per dirlo con un eufemismo, molto “allegra”, riuscendo
a spremere fino all’ultimo cavallo il motore del mezzo, guidando quasi sempre a
ridosso della linea di mezzeria della carreggiata, in perenne sorpasso e a
velocità folle attraverso ameni paesaggi agresti e centri abitati.
Abbiamo
sostato ad Hai Phong una notte, pernottando all’hotel Haong Hai, economico,
centrale e pulito, dal quale la mattina seguente abbiamo raggiunto l’aeroporto
in un battibaleno. Il tempo qui trascorso è stato quello che più ci ha fatto
vivere ed apprezzare il posto, in quanto non abbiamo visto traccia di occidentali.
Una
volta espletate le formalità di accettazione, alle 16,00 circa ci siamo ritrovati
in strada per iniziare la visita della città. Per prima cosa, avendo necessità
di valuta locale ci siamo recati in banca, ma l’impiegata ci ha comunicato che
lo sportello era fuori servizio causa festività (!) e comunque ci ha invitato a
rivolgerci ad un negozio di oreficeria che funge anche da cambiavalute.
Raggiunto il locale ho appurato che forse quello che si dice della mafia locale
ha un minimo di fondamenta: ho cambiato euro ad un tasso vantaggiosissimo,
mentre vicino a me il contatore di banconote non smetteva di propagare il
fruscio di banconote da 100,00 dollari di nuova emissione che un impassibile
signore continuava a porgere al dipendente della gioielleria. Sono rimasto
impressionato dal numero di banconote impilate sul tavolo.
Il
nostro hotel si trova a circa metà strada fra il teatro dell’opera e la
stazione ferroviaria, a ridosso di un mercato, che abbiamo immediatamente
deciso di visitare. Qui di turisti nemmeno l’ombra, e l’ambiente è quanto di
più genuino ci può essere: un’esplosione di colori, di profumi (e non), di
rumori e di sapori che solo i mercati asiatici sanno proporre. Ci siamo immersi
quindi nelle viuzze stracolme di bancarelle e mercanzie di ogni genere,
alimentari per lo più: frutta, verdura e pesce in quantità industriali, lavate
e pulite sui marciapiedi rilasciando rigagnoli di acqua sporca colorata del
rosso del sangue e dell’argento delle squame dei poveri pesci scorticati vivi.
Nell’ambiente coperto in un dedalo di passaggi sono ammassati quantitativi
enormi di mercanzie, in uno spazio buio e claustrofobico che ci ha fatto
guadagnare in fretta l’uscita all’aria aperta, per quanto appesantita da fumo e
odori forti. L’odore della carne grigliata ci ha sollecitato le narici, ed
abbiamo sostato presso una cucina all’aperto dove una processione continua di
gente sostava per uno spuntino veloce per poi dileguarsi alle proprie faccende.
Abbiamo gustato dei Banh Mi, semplicemente eccezionali.
A
parte il mercato, luogo di incontro per antonomasia, abbiamo osservato che la
gente “vive” la propria città, radunandosi in molteplici capannelli lungo i marciapiedi
degli ampi viali a socializzare di fronte ad una birra, un caffè o ad una
ciotola di zuppa a tutte le ore. La zona che abbiamo visitato è degna del
confronto con una grande città europea; se non fosse per il solito immane
traffico caotico che innalza a livelli esponenziali i valori dello smog,
sarebbe senz’altro una città vivibile. Il nuovo ha ormai sopraffatto la vecchia
città coloniale: resistono ancora pochissime basse costruzioni circondate da
altissimi palazzi di vetro e cemento che le lasciano perennemente e mestamente
in ombra.
Del
periodo francese meritano un cenno di nota per una visita esterna il palazzo
del Teatro dell’Opera, chiuso, e le chiese cristiane fra le quali la bella Cattedrale,
tutte chiuse anch’esse. Una bella passeggiata a piedi è la cosa migliore che si
possa ottenere. La sera il traffico cala sensibilmente, ed i marciapiedi si
popolano di gente e di attività all’aperto; ci sediamo ad uno di questi tavoli
per consumare una ciotola di zuppa, vicino ad una giovane coppia. Lui ci chiede
da dove veniamo, quindi: “ah, A.C. Milan, good football team!” Io vorrei
rispondergli che per me nei campi da calcio ci potrebbero pure piantare le
patate, ma nel frattempo ha già ordinato una birra, e con un largo sorriso me
ne porge un bicchiere accennando un brindisi, non so se a noi o al Milan, mentre
la compagna dagli occhi di cerbiatta ci guarda incuriosita. Il loro inglese non
è certamente migliore del mio, ed allora lascio che il solo tintinnio dei due bicchieri
che si toccano suggelli il rito. Al diavolo il Milan, Auguri Vietnam!